Autore della scheda: Gianluca Forgione
Il Cristo velato, firmato e datato «IOSEPH NEAP[OLITANUS] / SANMARTINO FECIT 1753», è tra i capolavori più celebri della scultura barocca europea. Il suo autore, che aveva trentatré anni al momento della consegna dell’opera, fu ricompensato da Raimondo di Sangro con 500 ducati, i quali, come risulta dal saldo di 30 ducati che Sanmartino riscosse presso il banco napoletano della Pietà il 13 febbraio 1754, rappresentavano l’«intiero prezzo convenuto della statua scolpita in marmo di Nostro Signore Gesù Cristo morto, ricoperto da una sindone di velo trasparente dello stesso marmo […] lavorata di tutta soddisfazione» (Nappi 2010, p. 128, doc. 400). Una fede di credito di 50 ducati emessa dal banco del Salvatore il 16 dicembre 1752 e sottoscritta dal Principe di Sansevero documenta che a questa data lo scultore era già a lavoro sul marmo (cfr. Chartulae desangriane 2006, pp. 22-23; Sanmartino incassò la somma presso il medesimo banco il 28 marzo 1753: cfr. Nappi 2010, p. 128, doc. 399).
In una lettera inviata nel 1753 all’accademico della Crusca Giovanni Giraldi (1712-1753), e poi spedita in francese anche al fisico Jean-Antoine Nollet (1700-1770), è Raimondo stesso a far riferimento al Cristo velato e all’ambiente che avrebbe dovuto accoglierlo (di Sangro 2018, pp. 32-33, 72-73). Nella cavea ipogea che attualmente ospita le «macchine anatomiche» (cfr. la scheda 29), realizzate dal palermitano Domenico Giuseppe Salerno (1728-1792), Sansevero avrebbe voluto realizzare un tempietto ovale diviso in otto arcate e sormontato da una cupola forata. Tale ambiente, destinato a contenere le sepolture dei discendenti del Principe, avrebbe dovuto dare l’impressione di «essere scavato in una rocca»; e nel suo «mezzo» Raimondo avrebbe voluto collocare «la statua di marmo al naturale di Nostro Signor Gesù Cristo morto, involta in un velo trasparente pur dello stesso marmo» e accompagnata alle estremità da due «lumi eterni» alimentati dall’eccezionale sostanza infiammabile da lui riscoperta.
Sansevero non fece in tempo a completare il progetto. La Breve nota di quel che si vede in casa del principe di Sansevero don Raimondo di Sangro nella città di Napoli, scritta sotto il diretto controllo del Principe e riedita per la terza volta nel 1769, descrive la statua nella navata della chiesa (pp. 10-11; cfr. Attanasio 2011, p. 59). Nelle sue disposizioni testamentarie stese nell’agosto del 1770, del resto, Raimondo raccomanda al primogenito Vincenzo di «terminare quel sotterraneo tempietto sepolcrale, a cui si scende per la parte della sagrestia», «secondo la stessa, stessissima idea e disegnazione da me conceputane, e dal poco già fatto sufficientemente indicata» (Testamento 1770, c. 47v; cfr. Chartulae desangriane 2006, p. 108). Nell’inventario della chiesa e dei beni del palazzo dei Di Sangro, stilato alla morte del Principe nel 1771, viene ribadito che la già famosa scultura di Sanmartino «dovrà essere situata in mezzo ad un tempietto sotterraneo ovato, che sta dalla parte della sagrestia per ove si scenderà, ma ora vi è appena la fabrica rustica» (Inventario 1771, c. 126r-v; cfr. Attanasio 2011, p. 152).
Le testimonianze letterarie e figurative comprovano che negli ultimi decenni del Settecento e per quasi tutto l’Ottocento il Cristo velato rimase esposto nella navata. Donato Andrea Fantoni (1746-1817), che visitò la Cappella Sansevero nel 1769, è il primo a riferire nel suo diario che il marmo di Sanmartino era ubicato «a man dritta entrando» (1977, p. 50), e la medesima collocazione è indicata sia nella Guida napoletana di Pompeo Sarnelli (1772, p. 128) sia nel Voyage d’Italie del Marchese De Sade, che lo vide nel 1776 (Cioffi 2015, in particolare p. 334). Ancora le Aggiunzioni alle Notitie di Carlo Celano che Giovan Battista Chiarini pubblicò nel 1858 (p. 453) ribadiscono che la «statua doveva collocarsi in mezzo al sepolcreto sotterraneo, costruito dal principe Raimondo per comune deposito delle ceneri dei discendenti di sua famiglia, ma ciò non fu poi mandato ad effetto per la morte di questo Principe». Al di là dei referti odeporici e periegetici, buona parte delle fonti figurative ottocentesche documentano il Cristo velato nella chiesa (Attanasio 2011, figg. 41-43; Fabrizio Masucci, in Parole Maestre 2016, pp. 114-117): in particolare, in una seppia su carta di Achille Vianelli (1803-1894) la statua è al centro della navata; mentre in un disegno acquarellato (1881) di Consalvo Carelli (1818-1900) e in una coeva foto Sommer essa appare nei pressi della Pudicizia (1752) di Antonio Corradini (1688-1752).
Nondimeno, è da segnalare che nel 1872 Gennaro Aspreno Galante registra la scultura nell’«ipogeo» (pp. 162-163). Tale referto, che non ha goduto di particolare credito nella critica, trova ora conferma nella testimonianza di viaggio di Hippolyte-Adolphe Taine (1828-1893). Lo storico francese, che visitò la Cappella Sansevero nel febbraio del 1864, annota che «au fond d’une crypte est un Christ mort enveloppé dans son linceul; le gardien allume une bougie, et dans cette teinte blafarde, dans l’air humide et froid, les yeux, les sens, tout l’être nerveux se trouble comme au contact d’un cadavre» (Taine 1866, p. 46; «in fondo a una cripta v’è un Cristo morto avvolto nel suo lenzuolo; il guardiano accende una candela, e in quella luce pallida, nell’aria umida e fredda, gli occhi, i sensi, tutto l’essere sente un brivido come al contatto d’un cadavere»: cfr. Idem 1956, p. 33). Possiamo quindi dedurre che nel terzo quarto dell’Ottocento – e più precisamente dopo il resoconto di Chiarini del 1858 e prima del disegno di Vianelli del 1881 – il Cristo fu effettivamente esposto nella cavea secondo l’originaria intenzione del Principe.
Sembra evidente che l’aspetto roccioso della cavea avrebbe dovuto alludere al «sepolcro nuovo» che Giuseppe d’Arimatea aveva fatto scavare per sé nella roccia, e che poi donò per la sepoltura del Salvatore. Di Sangro avrebbe dunque voluto che, coerentemente con la sua funzione, l’intera cripta fosse identificata con la tomba di Cristo. Anche le altre caratteristiche dell’ambiente immaginato dal Principe, quali la pianta ovale, la cupola forata e le otto arcate, inducono a credere ch’egli intendesse rifarsi – seppure in termini più scenografici che filologici – al modello della rotonda dell’Anastasis nella basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme (Forgione 2022, pp. 43-46; una lettura della cavea in chiave massonica è invece proposta da Cioffi 1994, pp. 111-113).
Il capolavoro di Sanmartino è stato spesso associato a due importanti precedenti: il Cristo morto in marmo che nel 1722 Matteo Bottigliero (1680-1757) scolpì su disegno di Francesco Solimena (1654-1747) per la cripta del Duomo di Capua (D’Angelo 2018, pp. 186-191, n. B2) e la scultura lignea del medesimo soggetto che Carmine Lantriceni realizzò nel 1728 per la congrega dei Turchini a Procida (De Mieri 2017). Gli studi hanno discusso ampiamente le caratteristiche di stile e d’iconografia che uniscono e insieme differenziano questi tre capisaldi della plastica barocca meridionale (Alparone 1957). Importa richiamare l’attenzione specialmente sul contesto d’origine del Deposto di Bottigliero. Secondo la testimonianza dello storico Francesco Granata (1766, pp. 53-54), fra il 1719 e il 1724 l’arcivescovo Nicola Caracciolo (1658-1728) intraprese radicali lavori di trasformazione della Cattedrale capuana, in occasione dei quali fece collocare nella cripta dell’edificio «la forma del Santo Sepolcro della stessa proporzione e misura che oggi si vede in Gerusalemme, e nel medesimo si osserva la statua di marmo che rappresenta Gesù Cristo morto, opera assai stimata del scultore napolitano Bottigliero». Diversamente da Di Sangro, Caracciolo commissionò una replica rigorosa, di recente smantellata, dell’Edicola gerosolimitana. Per il marmo di Sanmartino, dunque, il Cristo morto di Bottigliero poté rappresentare un precedente non soltanto sul piano stilistico e tipologico. Entrambe le sculture, infatti, erano state commissionate per un ambiente che intendeva riproporre il modello del Santo Sepolcro di Gerusalemme, anche se in termini differenti e in accordo a una tradizione divenuta assai rara nel Meridione (Forgione 2022, pp. 43-46).
La cavea della Cappella Sansevero, con le finte rocce in evidenza e le tombe dei discendenti che avrebbero dovuto disporsi nelle arcate «con un certo studiato disordine» (di Sangro 2018, p. 32), avrebbe finito per richiamare il Santo Sepolcro che orna l’altare con il Compianto di Celebrano (cfr. la scheda 1). Ed è probabile che la relazione tra questi due ambienti fosse stata stabilita da Raimondo anche sul piano del significato: il sarcofago scoperchiato dall’angelo che di lì a breve avrebbe accolto il Redentore poteva idealmente comunicare con la cavea ipogea, in cui il visitatore si sarebbe trovato all’interno del sepolcro e al cospetto della salma che vi era stata riposta.
La natura scenografica della cavea spinge a chiedersi se anche la genesi di quest’invenzione non sia da connettere alla cultura effimera del barocco romano, che Raimondo ebbe l’opportunità di assimilare in occasione del suo soggiorno di formazione al Seminario Romano, che si svolse dal 1720 al 1730 (Forgione 2022, p. 45). Ne darebbe conferma un progetto che Andrea Pozzo (1700, figura 43) inserì nella sezione del suo trattato dedicata agli edifici a pianta centrale: un «teatro di tempio» che richiama la rotonda dell’Anastasis di Gerusalemme, e che servì con ogni probabilità per l’allestimento di un Santo Sepolcro per le Quarantore (Richard Bösel, in Mirabili disinganni 2010, pp. 271-283, in particolare pp. 273, 282-283, n. 14.12).
Ma come gli studi hanno messo in valore (Deckers 2010, pp. 285-292), è il marmo stesso di Sanmartino a dialogare non solo con i precedenti meridionali richiamati, ma anche con alcune delle invenzioni più note della scultura barocca a Roma. Oltre ai modelli all’epoca già ‘classici’ della Santa Cecilia di Stefano Maderno (1576-1636) in Santa Cecilia in Trastevere e della Beata Ludovica Albertoni di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) in San Francesco a Ripa, il Cristo di Sanmartino pare infatti debitore pure dell’invenzione del San Stanislao Kostka di Pierre Legros il Giovane (1666-1719), in cui il santo polacco è disteso, col capo reclinato sui cuscini ricamati, al di sopra di un materasso retto da un sommier decorato da frange. È da rimarcare che il marmo di Legros, destinato alle «stanze» del noviziato di Sant’Andrea al Quirinale, vantava una collocazione speciale per un allievo dei gesuiti qual era Raimondo; e che alla fine del Seicento lo scultore francese aveva intagliato il quadro marmoreo per l’altare di San Luigi Gonzaga nella chiesa di Sant’Ignazio, un lavoro che Di Sangro e Francesco Celebrano dovettero considerare con attenzione nell’ideazione del Compianto della Cappella Sansevero, come dimostrano finanche le affinità tra le cornici mistilinee delle due opere (cfr. la scheda 1).
Giangiuseppe Origlia Paolino (1754, p. 367) riferisce che, alla morte di Corradini nell’estate del 1752, «un certo napoletano nominato Giuseppe Sammartino» s’offrì «di iscolpire in marmo un Cristo morto secondo un modello in creta lasciato» dallo scultore veneto, «ch’esser dovea del tutto ricoverto d’un lenzuolo di velo trasparente dello stesso marmo». Il già ricordato inventario dei beni rimasti nell’eredità del Principe conferma che il «Cristo morto al naturale tutto velato» fu eseguito sulla base di un «modello in piccolo» eseguito da Corradini (Inventario 1771, c. 126v; cfr. Attanasio 2011, p. 152). Tra i «trenta sei modelli originali di creta cotta» che quest’ultimo plasmò per dare forma al progetto iconografico condiviso con Raimondo di Sangro (Origlia Paolino 1754, p. 367) vi era dunque pure quello del Cristo velato, oggi riconosciuto con buona certezza nella terracotta custodita al Museo di San Martino a Napoli (inv. 13524: cfr. Fittipaldi 1980, pp. 110-112; Cogo 1996, pp. 331-335, n. 53; Naldi in corso di pubblicazione).
Gli studi hanno provato in più occasioni a identificare il modello in terracotta che Giuseppe Sanmartino medesimo dovette concepire in preparazione del marmo, e alla luce della necessità di presentare al committente il suo personale progetto. Oltre che nell’opera stessa del Museo di San Martino, tale modello in terracotta è stato identificato prima in un esemplare di collezione privata (Borrelli 1974), poi in un pezzo del Bode-Museum di Berlino (fatto conoscere da Schlegel 1978 e attribuito a Sanmartino da Deckers 2010, p. 288), ma entrambe le versioni hanno generato dispareri nella critica (Cioffi 1994, pp. 61-63). Assai recente è la proposta di Riccardo Naldi (comunicazione orale del 2025 e in corso di pubblicazione), che riconosce la prima idea di Sanmartino per il Cristo velato in una nuova terracotta di collezione privata, significativa anche per il modo in cui consentirebbe di comprendere il contributo originale del maestro napoletano rispetto al bozzetto di Corradini. Sempre Naldi riconosce nel pezzo riscoperto il «modello di Cristo morto in creta con sopra ricoverta a velo di marmo» che l’inventario del 1771 (c. 61v; cfr. Attanasio 2011, p. 128) ricorda senza specificazione dell’autore nel «suppegno» – ovvero nella soffitta – del palazzo del Principe.
Ritornando al marmo, rispetto all’invenzione corradiniana Sanmartino riuscì a far proprio con grande originalità l’effetto virtuosistico del velo che aderisce al corpo esanime. Il giaciglio in terracotta che lo scultore veneto aveva ornato con teste di cherubino ai quattro angoli viene tradotto dal napoletano in un severo catafalco intagliato nel bardiglio e appena movimentato dalle frange del drappo funebre, mentre il materasso e i cuscini dalle nappe rabbuffate si comprimono sotto il peso della figura. Nella scultura monumentale gli strumenti della Passione spiccano col vigore plastico di una natura morta barocca; e, a fronte del pittoricismo decorativo del modello di Corradini, Sanmartino prova a scavare al fondo della materia per restituire la drammatica anatomia di un Cristo morto che nella posa irrequieta sembra già sperimentare i primi fremiti del risveglio.
Bibliografia essenziale sull’opera
Breve nota di quel che si vede in casa del principe di Sansevero don Raimondo di Sangro nella città di Napoli, [Napoli] 1769, pp. 10-11.
Testamento di Raimondo di Sangro, Napoli, notaio Francesco de Maggio, 1770, copia del documento disponibile presso l’Archivio Storico del Pio Monte della Misericordia di Napoli, fondo d’Aquino di Caramanico, segnatura provvisoria A.160, c. 47v.
Inventario de’ beni rimasti nell’eredità del fu eccellentissimo don Raimondo di Sangro principe di Sansevero, Napoli, notaio Francesco de Maggio, 1771, copia del documento disponibile presso l’Archivio Storico del Pio Monte della Misericordia di Napoli, fondo d’Aquino di Caramanico, segnatura provvisoria A.162, cc. 61v, 126r-v.
Origlia Paolino Giangiuseppe, Istoria dello Studio di Napoli…, II, Napoli, Giovanni di Simone, 1754, p. 367.
Sarnelli Pompeo, Nuova guida de’ forestieri…, Napoli, Saverio Rossi, 1772, p. 128.
Sigismondo Giuseppe, Descrizione della città di Napoli e suoi borghi, II, [Napoli,] presso i fratelli Terres, 1788, p. 37.
Celano Carlo, Delle notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli per gli signori forastieri… Quarta edizione, in cui si è aggiunto tutto ciò che si è di nuovo fatto in Napoli ne’ nostri tempi…, Giornata Terza, Napoli, Salvatore Palermo, 1792, p. 90.
Celano Carlo, Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli… Con aggiunzioni de’ più notabili miglioramenti posteriori fino al presente, estratti dalla storia de’ monumenti e dalle memorie di eruditi scrittori napolitani, per cura del cavalier Giovanni Battista Chiarini, III, Napoli 1858, p. 453.
Taine Hippolyte, Voyage en Italie, I, Naples et Rome, Paris 1866, p. 46.
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Borrelli Gennaro, Il bozzetto del Sanmartino per il Cristo velato della Cappella Sansevero, in «Napoli nobilissima», s. III, XIII, 1974, pp. 185-189.
Fantoni Donato Andrea, Diario di viaggio e lettere. 1766-1770, a cura di Anna Maria Pedrocchi, Bergamo 1977, p. 50.
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Nappi Eduardo, Dai numeri la verità. Nuovi documenti sulla famiglia, i palazzi e la Cappella dei Sansevero, Napoli 2010, p. 128, docc. 399-400.
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Masucci Fabrizio, Parole Maestre. Libri antichi e rari per il principe di Sansevero, Napoli 2016, pp. 114-117.
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Raimondo di Sangro. Cronaca di vita e opere, a cura di Fabrizio Masucci e Leen Spruit, Napoli 2020, pp. 154, 164, 179.
Cioffi Rosanna, La Reggia di Caserta e il Cristo velato dalle pagine del Viaje a Italia di Leandro Fernández Moratín e una nota su Canova e Sanmartino, in Il Piccolo Principe. Giuseppe Sanmartino alla Reggia di Caserta, catalogo della mostra a cura di Valeria Di Fratta (Reggia di Caserta, Cappella Palatina, 27 maggio – 11 settembre 2022), Napoli 2022, pp. 50-56.
Forgione Gianluca, I simulacri delle cose. La Cappella Sansevero e il barocco romano, Torino 2022, pp. 39-46.
Naldi Riccardo, Alle origini di Giuseppe Sanmartino ‘statuario’. Un modello in terracotta del Cristo velato, in “Nuovi Studi”, in corso di pubblicazione.
Bibliografia di confronto
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Granata Francesco, Storia sacra della Chiesa metropolitana di Capua, I, Napoli, nella stamperia Simoniana, 1766, pp. 53-54.
Bösel Richard, in Mirabili disinganni. Andrea Pozzo (Trento 1642 – Vienna 1709) pittore e architetto gesuita, catalogo della mostra a cura di Richard Bösel e Livia Salviucci Insolera (Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, 5 marzo – 2 maggio 2010), Roma 2010, pp. 271-283, in particolare pp. 273, 282-283, n. 14.12.
De Mieri Stefano, I disegni preparatori per il Cristo morto di Carmine Lantriceni, in «Napoli nobilissima», s. VII, III, 2017, 1, pp. 39-51.
D’Angelo Manuela, Matteo Bottigliero. La produzione scultorea tra fonti e documenti (1680-1757), Roma 2018, pp. 186-191, n. B2.