Autore della scheda: Augusto Russo
Il monumento di Raimondo di Sangro segnò il vertice della genealogia sepolcrale della Cappella Sansevero: il Principe con la sua realizzazione si assicurava che le proprie spoglie e la propria figura, anche di ‘ricostruttore’ e ‘ideatore’ del sacello medesimo, si unissero a quelle degli antenati. Collocata nel piccolo ambiente che conduce alla sacrestia e alla cavea sotterranea, e illuminata dall’apertura della cupoletta ellittica, questa tomba, che occupa in altezza tutta la parete, dal suolo all’arco, è affrontata alla porta laterale della Cappella, offrendosi quindi alla prima vista di chi entri da lì. Il rapporto speciale con quell’ingresso è inoltre enfatizzato dall’iscrizione posta all’esterno, rivolta al viandante, dove Raimondo è annunciato come colui il quale nel 1767 ampliò con maestria il sacello di famiglia per contenervi le ceneri proprie e dei congiunti.
Nell’epigrafe del monumento, presumibilmente dettata da Raimondo stesso, sono elencati i suoi titoli nobiliari e onorifici e celebrati i suoi straordinari e plurimi meriti e interessi (a compendio di questi ultimi si potrebbe stralciare il seguente brano: «SCIENTIA MILITARI MATHEMATICA PHILOSOPHICA CLARUS / IN PERSCRVTANDIS RECONDITIS NATVRAE ARCANIS CELEBERRIMVS»). Con la dovuta retorica si fa inoltre notare nell’epigrafe che il Principe aveva allestito depositi per avi e congiunti, senza tuttavia aver provveduto per sé. Per giunta, egli avrebbe inteso riabilitare il ricordo di sé, messo a rischio dai fallimenti politici e dalle accuse subite dopo la pubblicazione della Lettera apologetica (Cioffi 2019, pp. 38-40). Come tramandato infine nella stessa epigrafe, il monumento fu eretto da Gennaro Ottone, sacerdote e teologo, protonotario apostolico e rettore della Cappella stessa, e da altri cappellani che celebravano messe quotidiane (vari passi dell’epigrafe sono commentati da Colapietra 1986b, pp. 144-145).
La lastra, peraltro rotta in più punti, vanta una particolare caratteristica esecutiva che destava sorpresa. Le lettere, come testimoniato da scrittori dell’epoca, «sono di marmo bianco rilevate ad uso di cammeo, e il fondo è colorito rosso, quantunque però così le lettere rilevate come il piano del fondo non siano se non dell’istesso pezzo; la qual cosa si rende ancor più mirabile nell’ornamento di basso rilievo finissimo a color bianco sullo stesso marmo, che circonda tutta la lapida, e che rappresenta un intreccio in arabeschi di viti colle loro frondi e grappoli di uva» (Sarnelli 1772, p. 127; qui si riportano pure le dimensioni della lastra, espresse in palmi romani, cioè 7 1/3 d’altezza e 8,3 1/3 di larghezza: questo livello così preciso d’informazione si deve probabilmente al fatto che l’estensore ebbe notizie di prima mano dal segretario del Principe, Filippo Giunti). L’idea era del Principe stesso, come riportato in altra periegetica di poco seguente (Sigismondo 1788, p. 38; Celano 1792, p. 87). La colorazione rossa (forse evocativa del porfido) è ora meno apprezzabile che in passato (ne restano solo tracce): ma la vera sfida era quella di ottenere l’iscrizione, in uno con la decorazione circostante a bassissimo rilievo, a mo’ di raffinato ricamo, senza incisione meccanica della pietra, e piuttosto attraverso una sorta di calco. Raimondo vi sarebbe riuscito con uno dei suoi ritrovati: un solvente chimico atto a erodere gli spazi di risulta tra una lettera e l’altra (Marco Bussagli, in Napoli, la Cappella Sansevero 2019, pp. 137, 139).
Il 1759, che compare nell’epigrafe come anno in cui Raimondo, allora quarantanovenne, ‘restaurò’ la Cappella, è stato sinora generalmente assunto quale data d’esecuzione del sepolcro, ma in realtà andrebbe con più prudenza considerato un termine non ante quem. Sicuro (almeno ufficialmente) ne è l’ideatore, il cui nome si legge inciso in basso a destra: «FRAN.VS M.A RVSSO PICT.R / INVENIT ET DELINEAV.». Peraltro, secondo una testimonianza di più di trent’anni fa, il pezzetto di marmo così iscritto non era più visibile, essendo andato addirittura smarrito (de Sangro 1991, p. 182, n. 13); occorre pertanto pensare a un reintegro in un successivo restauro. La committenza si servì dunque di Francesco Maria Russo, che nel 1749 aveva decorato la volta della Cappella, e che lavorò più o meno stabilmente alle dipendenze del Principe. Nel 1764 e 1765 Russo è documentato come «pittore d’ornamenti» e «pittore guazzista» di casa Sansevero (Nappi 2010, pp. 125-126, docc. 392-395; Fabrizio Masucci, Leen Spruit, in Raimondo di Sangro 2020, pp. 215, 255). Nondimeno si può supporre che Raimondo, da par suo, abbia avuto un ruolo, fors’anche oltre il contributo di cui si è detto, nella creazione del sepolcro, specialmente dopo il licenziamento di Francesco Queirolo, avvenuto proprio in quel 1759.
È stato notato come la struttura della tomba Di Sangro tragga ispirazione da un apparato funebre disegnato da Giuseppe Galli Bibiena e inciso nelle sue Architetture e prospettive pubblicate ad Augusta nel 1740 e dedicate all’imperatore Carlo VI d’Asburgo, del quale il Bibiena era primo architetto teatrale a Vienna (Cioffi 1994, pp. 68-69). L’attinenza, comunque, va circoscritta al basamento del catafalco, lì illustrato, in morte di Luigi XIV di Francia (Bibiena 1740). Che un’idea del genere, di gusto sovralocale, e di rango ufficiale e ‘cesareo’, potesse essere presa a esempio appare ben plausibile, considerato il raggio di contatti del Principe e dello scultore inizialmente investito dell’impresa della Cappella, Antonio Corradini. Altro tramite poteva essere nel soggiorno napoletano di un altro dei Bibiena, il fratello di Giuseppe, Giovanni Maria Galli (il Giovane), ingegnere e architetto civile al servizio di Carlo di Borbone, e coinvolto anche in progetti e lavori per Raimondo, come la rifazione del palazzo a San Domenico Maggiore (Attanasio 2011, pp. 28-37). La congiuntura indicata dai Bibiena, e soprattutto l’eventualità del riferimento al modello succitato, dovettero alleviare non poco le responsabilità di Russo nella concezione del monumento Di Sangro, e forse contribuiscono almeno in parte a dare una risposta alle perplessità espresse dalla critica (Cioffi 1994, p. 68) nella comprensione della pur dichiarata ‘autografia’ di quest’artista, personalità in definitiva di secondo piano.
Il monumento in esame è descritto dettagliatamente nell’inventario dei beni dell’eredità di Raimondo, redatto alla sua morte, nel 1771 (cc. 84v-85r; cfr. Attanasio 2011, pp. 135-137). Vi sono indicate, tra l’altro, le varie specie di marmi impiegati, tra cui il giallo di Verona, il bardiglio, il verde di Calabria, la breccia di Francia, il nero, la pietra di Sicilia. Un drappo marmoreo che cala in pieghe ai lati determina al solito modo l’impaginazione teatrale della memoria, ed è ovviamente in dialogo con soluzioni proprie dell’effimero e della scenografia, àmbiti cui Russo apparteneva come decoratore.
Non si conosce, d’altronde, chi scolpì il sepolcro. Gli intagli marmorei nel mezzo – un serto d’alloro attorno al ritratto del Principe, un motivo a valva di conchiglia in alto, e volute e festoni con foglie e frutti ai fianchi – sono improntati al linguaggio della locale tradizione barocca, tradotto ormai in una finezza di tendenza rococò. D’altro tenore è lo sfoggio scultoreo, pure in marmo bianco, pressoché a pieno rilievo, in cima al sepolcro, dove la pompa è esibita nel repertorio ‘all’antica’ di trofei e insegne, disposto in apparente ammasso, attorno a un busto attraversato da una mazza, su cui poggia un cimiero di profilo. Altresì la selezione di oggetti non è generica ma accuratamente ‘personalizzata’, e l’insieme, comprendente strumenti di studio e ricerca, è distinto e descritto così nell’inventario succitato: «vi sono tutti trofei, bandiere, scudi, lancie, archibusti, sciable, mazze, spade, trombe, accette, libri, compassi, squadre, carte, toccalapis, e mappamondo. Dall’altro canto vi è il manto reale con la colonna di essa collana, e sopra la medesima vi è un bastone, una spada, e la chiave con fiocco. Vi sono anche altre bandiere con tamburri, e bacchette per suonarli: vi è anche un berrettone da granatiero con una tromba colla fiaccola, a canto a detto busto vi è una spada tutta lavorata e a canto di essa vi è impresa della Casa» (Inventario 1771, cc. 84v-85r; cfr. Attanasio 2011, p. 137). Si allude scopertamente alle virtù e attitudini militari del Principe, e alla sua inclinazione per le scienze e alle relative occupazioni. Non manca il riferimento al cavalierato dell’Ordine di San Gennaro, di cui Raimondo poteva fregiarsi dal 1740. In una delle guide succitate «i trofei di marmo» si dicono «tirati a tanta delicatezza al pari del naturale, che è cosa veramente degna di ammirazione» (Sarnelli 1772, p. 127). Nel mucchio d’armi e corazze si sarebbe persino tradotto «un gusto mantegnano» (Crocco, Guarino 1964, p. 49): implicito richiamo a un modello sommo quale i Trionfi di Cesare del Mantegna.
È da notare che per la presenza della panoplia non sono moltissimi i sepolcri settecenteschi a Napoli a potersi confrontare con quello di Raimondo: si segnala il monumento, di poco più antico, di Nicola di Sangro nella Cappella del Crocifisso nella vicina chiesa di San Domenico Maggiore (Cioffi 1994, p. 69; su di esso cfr. Michalsky 2008; Saggiomo 2022, con documenti che certificano la direzione dell’opera da parte dell’architetto Luca Vecchione), mentre un esempio tardo-seicentesco è il monumento Brancaccio nell’altrettanto vicina Sant’Angelo a Nilo, opera dei carraresi Pietro e Bartolomeo Ghetti, venuti da Roma con idee essenzialmente berniniane.
I visitatori e gli studiosi della Cappella Sansevero sono abituati a osservare la mezza figura del Principe, che fu dipinta su rame, in condizioni guaste, con lacune che interessano buona parte della superficie, altrove invece integra. Sin dalla periegetica napoletana di secondo Settecento il ritratto è attendibilmente assegnato a Carlo Amalfi. La parte migliore della produzione di questo pittore, nato nel 1707 a Sorrento e con verosimiglianza educatosi tra l’ultimo Solimena e l’emergente Francesco De Mura, e poi assestatosi su certa linea di classicismo romano-napoletano, è appunto la ritrattistica, attestabile, per qualità e rilievo storico, un po’ sotto quella d’un Giuseppe Bonito. L’attribuzione, non supportata da specifici documenti di pagamento, è da sempre accettata dalla critica (a conferma sono anche acquisizioni recenti, come la serie di ritratti Serra di Cassano: Porzio 2015), mentre la cronologia è da avvicinare al 1759, o comunque da comprendere entro il 1771. Non è invece praticabile l’ipotesi (Nappi 2010, p. 98) che il ritratto corrisponda a un quadro dipinto per la Cappella da Nicola Russo nel 1745 (ivi, p. 118, doc. 369).
Dove ancor visibile, nella tessitura pittorica e chiaroscurale la fisionomia matura di Raimondo, ritratta al vivo, emerge dal fondo con sensibile qualità naturalistica, insieme al gomito piegato e portato in avanti alla luce. Notevole, poi, il livello di resa psicologica che s’indovina del modello: si scorge il volto d’un uomo volitivo ma privo di spocchia, pensoso e quasi provato. Per tali caratteristiche di realismo e introspezione, il nome di Amalfi ritrattista è stato associato a quello di Gaspare Traversi (Mostra 1954, p. 42; Picone 1959, pp. 97-99), e l’effigie in esame, a onta del degrado, resta una delle sue prove migliori. Al confronto, il precedente ritratto pure spettante ad Amalfi, e noto dall’incisione di Ferdinando Vacca, dove Raimondo appare più giovane, ambiva semmai, per postura e attributi, a modi aulici, secondo il gusto internazionale del tempo. Nella propria tomba, invece, il Principe non disdegnò di mostrarsi senza filtri, senza troppi obblighi di ufficialità, lasciando che fosse il resto della composizione a echeggiare i suoi fasti.
Bibliografia essenziale sull’opera
Inventario de’ beni rimasti nell’eredità del fu eccellentissimo don Raimondo di Sangro principe di Sansevero, Napoli, notaio Francesco de Maggio, 1771, copia del documento disponibile presso l’Archivio Storico del Pio Monte della Misericordia di Napoli, fondo d’Aquino di Caramanico, segnatura provvisoria A.162, cc. 84v-85r.
Sarnelli Pompeo, Nuova guida de’ forestieri…, Napoli, a spese di Saverio Rossi, 1772, p. 127.
Sigismondo Giuseppe, Descrizione della città di Napoli e suoi borghi, II, [Napoli,] presso i fratelli Terres, 1788, pp. 38-40.
Celano Carlo, Delle notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli per gli signori forastieri… Quarta edizione, in cui si è aggiunto tutto ciò che si è di nuovo fatto in Napoli ne’ nostri tempi…, Giornata Terza, Napoli, Salvatore Palermo, 1792, p. 87.
Picone Marina, La Cappella Sansevero, Napoli 1959, pp. 97-99.
Mostra del ritratto storico napoletano, catalogo della mostra a cura di Gino Doria e Ferdinando Bologna (Napoli, Palazzo Reale, ottobre – novembre 1954), Napoli 1954, p. 42.
Crocco Augusto, Guarino Mario, La Cappella Sansevero e il suo mecenate, Napoli 1964, pp. 48-49.
Colapietra Raffaele, Raimondo di Sangro e il Templum sepulcrale della Cappella Sansevero (I), in «Napoli nobilissima», s. III, XXV, 1986a, pp. 62-79, in particolare p. 72,
Colapietra Raffaele, Raimondo di Sangro e il Templum sepulcrale della Cappella Sansevero (II), in «Napoli nobilissima», s. III, XXV, 1986b, pp. 142-154, in particolare pp. 144-145.
Aiello Immacolata, Carlo Amalfi, pittore del ’700, Sorrento 1989, pp. 79-81.
de Sangro Oderisio, Raimondo de Sangro e la Cappella Sansevero, Roma 1991, pp. 181-184, n. 13.
Cioffi Rosanna, La Cappella Sansevero. Arte barocca e ideologia massonica, prima edizione: Salerno 1987, edizione citata: Salerno 1994, pp. 68-70, 154-155.
Nappi Eduardo, Dai numeri la verità. Nuovi documenti sulla famiglia, i palazzi e la Cappella dei Sansevero, Napoli 2010, pp. 98-99.
Attanasio Sergio, In casa del principe di Sansevero. Architettura, invenzioni, inventari, Napoli 2011, pp. 135-137.
Porzio Giuseppe, Carlo Amalfi per i Serra di Cassano. Un contributo alla ritrattistica napoletana del Settecento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Corsini, Biennale Internazionale dell’Antiquariato, 26 settembre – 4 ottobre 2015), Roma, Galleria Carlo Virgilio & C., 2015.
Cioffi Rosanna, Storie e leggende di un principe e della sua cappella. Da Raimondo di Sangro a Benedetto Croce, in «Napoli nobilissima», s. VII, V, 2019, pp. 36-47, in particolare pp. 38-40.
Napoli, la Cappella Sansevero e il Cristo velato. Naples, Sansevero Chapel and the Veiled Christ, testi di Marco Bussagli, fotografie di Carlo Vannini, Bologna 2019, pp. 137, 139.
Bibliografia di confronto
Architetture e prospettive dedicate alla maestà di Carlo Sesto imperador de’ Romani da Giuseppe Galli Bibiena, suo primo ingegner teatrale ed architetto, inventore delle medesime, Augustae, sotto la direzione di Andrea Pfeffel, MDCCXL.
Michalsky Tanja, The local eye: formal and social distinctions in late Quattrocento Neapolitan tombs, in «Art History», XXXI, 2008, 4, pp. 484-504, in particolare pp. 489-492.
Nappi Eduardo, Dai numeri la verità. Nuovi documenti sulla famiglia, i palazzi e la Cappella dei Sansevero, Napoli 2010, pp. 98, 118, 125-126, docc. 369, 392-395.
Attanasio Sergio, In casa del principe di Sansevero. Architettura, invenzioni, inventari, Napoli 2011, pp. 28-37.
Porzio Giuseppe, Carlo Amalfi per i Serra di Cassano. Un contributo alla ritrattistica napoletana del Settecento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Corsini, Biennale Internazionale dell’Antiquariato, 26 settembre – 4 ottobre 2015), Roma, Galleria Carlo Virgilio & C., 2015.
Raimondo di Sangro. Cronaca di vita e opere, a cura di Fabrizio Masucci e Leen Spruit, Napoli 2020, pp. 215, 255.
Saggiomo Mariano, Due aggiunte al catalogo di Francesco Liani ritrattista, in «Paragone. Arte», LXXIII, 2022, 871-873, pp. 43-67, in particolare 57-59.