Autore della scheda: Mariano Saggiomo
Il mezzobusto rappresenta Paolo di Sangro, l’amato nonno di Raimondo, col quale questi crebbe in assenza di suo padre Antonio, coinvolto in vicende per lo più losche che lo tennero lontano da Napoli e in cui, per la verità, lo stesso Paolo ebbe un qualche ruolo (cfr. Colapietra 1986, pp. 69-71; Nappi 2010, pp. 15-17). Sesto principe di Sansevero dal 1698, Paolo è più felicemente ricordato come uomo di lettere e politico di spicco della corte austriaca di Napoli, dominazione sotto la quale fu reggente del Collaterale e prefetto dell’Annona (ibidem); al 1712 risale la nomina a cavaliere dell’Ordine del Toson d’Oro (La Toison d’Or 1962, p. 51; per le questioni letterarie rimando a Saggiomo 2022, p. 64, nota 56; e all’elenco di opere scritte da o dedicate a Paolo aggiungo ora, su segnalazione di Fabrizio Masucci, che ringrazio, le Egloghe pastorali e favolose di Domenico Andrea de Milo, edite nel 1698). Alla sua morte, nel 1726, fu Raimondo a divenire il settimo principe di Sansevero e non suo padre, a motivo dei problemi con la legge di cui si è detto, e che avevano costretto Antonio a prendere i voti (cfr. Fabrizio Masucci, Leen Spruit in Raimondo di Sangro 2020, p. 22).
Il dibattito critico sul monumento ruota come al solito intorno alla testimonianza di Origlia Paolino (1754, p. 365), il quale dichiara che lo scultore veneto Antonio Corradini, al servizio di Raimondo dal 1750, prima di morire nel 1752 aveva ultimato per il committente, tra le altre cose, «due mezzi busti: uno del principe di Sansevero don Paolo di Sangro, avo dell’odierno principe, e l’altro del Duca di Torremaggiore suo padre». Entrambi i pezzi soffrono da subito di scarsa fama nella bibliografia specifica del tempio gentilizio. Che fine abbia fatto il ritratto di Antonio – mai ricordato al di là di Origlia – rimane tuttora un mistero, e sorge il dubbio ch’esso non abbia mai trovato posto in quelli che dovettero essere i continui ripensamenti nell’allestimento della Cappella ai tempi di Raimondo. Il marmo di Paolo, invece, è ricordato esattamente dov’è oggi nell’inventario dei beni rimasti nell’eredità di Raimondo alla data del 1771 (cc. 91r-93v; cfr. Attanasio 2011, pp. 139-140). Anche in questo raro riferimento, però, l’anonimo estensore indugia più sull’impaginazione marmorea che sul monumento stesso, permettendoci se non altro di registrare la scomparsa dei due «giarroni» posizionati verosimilmente alle estremità del frontone, nei pressi della croce (ibidem). Dopodiché il pezzo ricompare un anno dopo nell’edizione del 1772 della guida di Pompeo Sarnelli (p. 127), e quindi direttamente nella Guida sacra della città di Napoli di Gennaro Aspreno Galante (1872, p. 160), dove non a caso figura come opera seicentesca: «son poi del Fanzaga [cioè di Cosimo Fanzago, 1591-1678] i sepolcri di Francesco e [dei] tre Paoli di Sangro, collocati sotto le quattro arcate dal lato della porta». Difatti, la struttura decorativa del vano e il ricorso a una rappresentazione ‘al naturale’, ossia realistica, avvicina il mezzobusto più ai lavori seicenteschi che non a quelli del secolo successivo, rendendolo in certo senso un’opera di ‘cerniera’ tra le due fasi di allestimento del tempio.
A voler prestar fede all’epigrafe, e come ha ritenuto una parte della critica, l’opera risalirebbe al 1742 (cfr. Picone 1959, pp. 103-105; e, con minori cautele, Cioffi 1994, pp. 13-14). Tale data obbliga però a collegare la commissione al soggiorno romano di Corradini (tranne per Colapietra 1986, p. 73, che lo vuole compiuto nel 1742 a Napoli), ma questo pone a sua volta una serie di problemi. In definitiva, non essendovi certezze cronologiche sull’arrivo dell’artista a Roma, sembra probabile che egli vi giungesse, per restarvi stabilmente, sul finire del 1742, attratto dalla possibilità di lavorare per la Basilica di San Pietro, a cui erano destinati otto suoi profeti da porre sul tamburo della cupola (cfr. Cogo 1996, pp. 112-122, in particolare p. 116; Saggiomo 2022, p. 50). La finestra temporale è perciò troppo stretta per farvi stare il marmo di Paolo, anche perché le parole di Origlia lasciano credere che i due mezzibusti dovessero in qualche modo dialogare tra di loro in Cappella, per cui sullo scorcio del 1742 andrebbe inserito a forza anche il mezzobusto di Antonio. Come se ciò non bastasse, non va dimenticato che le date incise nelle epigrafi in Cappella non rappresentano quasi mai un criterio attendibile per stabilire la cronologia dei rispettivi monumenti. La lectio facilior, quindi, suggerisce di datare il marmo in esame al soggiorno napoletano di Corradini, ossia al biennio 1750-1752 (in questa direzione sembra propendere anche Cogo 1996, pp. 323-325, n. 50).
Resta ora da capire quale possa essere stata la fonte iconografica sfruttata da Corradini per giungere a una tale acutezza fisionomica del personaggio, morto – lo si ricordi – nel 1726. Cogo (ivi, p. 324) ha ritenuto di «non escludere che il busto possa essere stato fatto rifare in sostituzione forse di un altro meno riuscito, già esistente sul monumento, o al posto di un ritratto dipinto dal vero al quale Corradini si sia ispirato». La prima ipotesi non ha alcun fondamento, mentre la seconda deve basarsi su una supposizione di Picone (1959, p. 105), la quale suggeriva che lo scultore «andasse eseguendo il ritratto di Paolo […] su di una sua immagine, probabilmente un dipinto solimenesco caratterizzato da durezza fisionomica e decisione di tratto».
Non molto tempo fa, chi scrive ha potuto riconoscere nelle collezioni del Museo Civico Gaetano Filangieri di Napoli un dipinto settecentesco raffigurante Paolo di Sangro, che si pone in scoperto dialogo con il mezzobusto in Cappella (Saggiomo 2022). La firma della tela, poco visibile e finora difficile da decifrare, si può adesso collegare a Gabriele Matthei (italianizzato Gabriello), pittore e incisore assai poco noto, ma autore di diversi ritratti di reali austriaci e Credibilmente attivo tra la città natale, Firenze e Roma (è in lavorazione uno studio dello scrivente a lui dedicato). La data del dipinto napoletano, pur essa problematica, consente solo di inquadrarlo negli anni quaranta del secolo, fatto che non lo lascia considerare un ritratto dal vivo. Dev’essere quindi esistita un’altra fonte – un dipinto o un’incisione – dalla quale dipesero il dipinto di Matthei e, forse da esso, il mezzobusto in argomento. A tal proposito si ricordi, infine, che di personaggi così in vista esistevano spesso manufatti derivati da maschere funerarie: dal citato inventario del 1771 (c. 61v, per cui cfr. anche Attanasio 2011, p. 128; e Colapietra 1986, p. 76, nota 8) apprendiamo, per esempio, che nella soffitta del palazzo sito nei pressi della Cappella esisteva una «testa di creta del Duca di Torremaggiore morto», cioè di Antonio di Sangro, padre di Raimondo. Qualcosa del genere dovrebbe essere esistito anche di Paolo.
Bibliografia essenziale sull’opera
Origlia Paolino Giangiuseppe, Istoria dello Studio di Napoli…, II, Napoli, Giovanni di Simone, 1754, p. 365.
Inventario de’ beni rimasti nell’eredità del fu eccellentissimo don Raimondo di Sangro principe di Sansevero, Napoli, notaio Francesco de Maggio, 1771, copia del documento disponibile presso l’Archivio Storico del Pio Monte della Misericordia di Napoli, fondo d’Aquino di Caramanico, segnatura provvisoria A.162, cc. 91r-93v.
Sarnelli Pompeo, Nuova guida de’ forestieri…, Napoli, Saverio Rossi, 1772, p. 127.
Galante Gennaro Aspreno, Guida sacra della città di Napoli, Napoli 1872, p. 160.
Picone Marina, La Cappella Sansevero, Napoli 1959, pp. 103-105.
Colapietra Raffaele, Raimondo di Sangro e il Templum sepulcrale della Cappella Sansevero (I), in «Napoli nobilissima», s. III, XXV, 1986, pp. 62-79, in particolare p. 73.
Cioffi Rosanna, La Cappella Sansevero. Arte barocca e ideologia massonica, prima edizione: Salerno 1987; edizione citata: Salerno 1994, pp. 13-14.
Cogo Bruno, Antonio Corradini scultore veneziano. 1688-1752, Este 1996, pp. 323-325, n. 50.
Attanasio Sergio, In casa del principe di Sansevero. Architettura, invenzioni, inventari, Napoli 2011, pp. 139-140.
Saggiomo Mariano, Due aggiunte al catalogo di Francesco Liani ritrattista, in «Paragone. Arte», LXXIII, 2022, 871-873, pp. 43-67, in particolare pp. 47-53.
Bibliografia di confronto
De Milo Domenico Andrea, L’Egloghe pastorali e favolose… dedicate all’illustrissimo et eccellentissimo sig. il signor [sic] Don Paolo di Sangro duca di Torremaggiore etc., Napoli, presso il Gramignani, 1698.
Inventario de’ beni rimasti nell’eredità del fu eccellentissimo don Raimondo di Sangro principe di Sansevero, Napoli, notaio Francesco de Maggio, 1771, copia del documento disponibile presso l’Archivio Storico del Pio Monte della Misericordia di Napoli, fondo d’Aquino di Caramanico, segnatura provvisoria A.162.
La Toison d’Or. Cinq Siècles d’Art et d’Histoire, catalogo della mostra (Bruges, Museo di Belle Arti, 14 luglio – 30 settembre 1962), Bruges 1962, p. 52.
Colapietra Raffaele, Raimondo di Sangro e il Templum sepulcrale della Cappella Sansevero (I), in «Napoli nobilissima», s. III, XXV, 1986, pp. 62-79, in particolare pp. 69-71, 76, nota 8.
Cogo Bruno, Antonio Corradini scultore veneziano. 1688-1752, Este 1996, pp. 112-122.
Nappi Eduardo, Dai numeri la verità. Nuovi documenti sulla famiglia, i palazzi e la Cappella dei Sansevero, Napoli 2010, pp. 15-17.
Attanasio Sergio, In casa del principe di Sansevero. Architettura, invenzioni, inventari, Napoli 2011, p. 128.
Raimondo di Sangro. Cronaca di vita e opere, a cura di Fabrizio Masucci e Leen Spruit, Napoli 2020, p. 22.
Saggiomo Mariano, Due aggiunte al catalogo di Francesco Liani ritrattista, in «Paragone. Arte», LXXIII, 2022, 871-873, pp. 43-67, in particolare pp. 50, 64, nota 56.