Autore della scheda: Luigi Coiro
Per lo più «le guide locali tacciono per questa statua il nome dell’autore», come sottolineato nel 1959 da Marina Picone, che riteneva l’Amor divino potesse essere – in considerazione di un linguaggio fattosi più «accademico» e di un «più greve impeto naturalistico» – una delle ultime opere eseguite da Francesco Queirolo (1704-1762) «prima del suo allontanamento dalla casa del Principe»: «tra quelle buttate giù in fretta, e forse rifinita da altri» (Picone 1959, pp. 107-108). Non era mancata, invero, qualche proposta di attribuzione nel corso dell’Ottocento (cfr. Saggiomo 2021-2022, pp. 535-551); tuttavia il nome di Queirolo, anche in anni più recenti, è stato generalmente ritenuto il più attendibile (cfr. de Sangro 1991, pp. 215-216, n. 24; Cioffi 1994, pp. 44-45, fig. 38; Attanasio 2011, p. 47). Al di là delle incertezze sulla paternità di quella che Fabio Colonna di Stigliano (1895, p. 118) valutava una «mediocre scultura», spicca il giudizio insolitamente positivo di Leopoldo Cicognara (1818, p. 96), che non aveva tuttavia ammirato de visu la statua, «in cui pur qualche cosa apparisce che non allontanasi dal gusto migliore, il quale si era di già in tanta parte perduto» (cfr. Cioffi 1994, pp. 44-45).
Sebbene la riedizione della guida di Sarnelli del 1772 (p. 126) reputasse «il simulacro dell’Amor verso Dio di illustre antico scarpello», persino l’inventario dei beni rimasti nell’eredità di Raimondo di Sangro, redatto nel 1771, sanciva trattarsi di opera «d’incerto autore», e tuttavia descriveva accuratamente sia «il ritratto della Dama [Giovanna di Sangro dei Marchesi di San Lucido], adornato di foglie di lauro indorate» (non più presenti), che l’iconografia della figura allegorica – «con un panneggio che pende da sopra le spalle fino a terra, e che la circonda in parte», recante «nella mano destra che sta incatenata, e alzata, un cuore in atto di offrirlo, e colla sinistra tiene le maglie della catena» – affiancata da un’iscrizione datata 1755 (Inventario 1771, cc. 99r-101r; cfr. Attanasio 2011, pp. 142-143).
L’epigrafe, attualmente leggibile sul basamento, era allora «accanto a detta statua» (riecheggiando, in questo aspetto, il Decoro di Corradini al lato opposto dell’ingresso: cfr. la scheda 14), e così appariva ancora attorno alla metà dell’Ottocento in una litografia di Franz Wenzel (cfr. de Sangro 1991, pp. 215-216, n. 24). Nell’incisione, tuttavia, la mano sinistra della «elegante statua» (Colapietra 1986, p. 68) – nel marmo le dita sono in parte mutile – non regge alcuna catena, la cui perdita dovette quindi precedere quella dell’iscrizione: quest’ultima probabilmente lesa in modo irreparabile a seguito del «disastro» che nel 1889 danneggiò varie porzioni dell’edificio e soprattutto la controfacciata (Colonna di Stigliano 1895, pp. 33-34; cfr. Attanasio 2011, p. 83). La scultura è stata poi convincentemente attribuita a Michelangelo Naccherino, con una datazione al 1617 circa, da Kuhlemann (1999, p. 224 e fig. 227), che ha interpretato il soggetto come Paride: attribuzione dubitativamente accolta da D’Agostino (2013, p. 230 fig. 5), la quale ha collegato l’opera a un disegno acquerellato del monumento funebre di Paolo di Sangro (Cooper Hewitt, Smithsonian Design Museum di New York), in cui, oltre al secondo principe di Sansevero, sono raffigurate altre due statue: quella a sinistra identificabile senza indugio con l’Amor divino.
Sabrina Iorio ha opportunamente connesso il disegno della Cooper Hewitt con una serie di documenti resi noti da Eduardo Nappi (1975, pp. 122-125, docc. 29-33, 49, 51; Idem 2010, pp. 110-112, docc. 318-324; cfr. la scheda 19). A partire dall’ottobre del 1609, e fino al 1615, Naccherino in effetti fu ricompensato da Paolo di Sangro per vari lavori in marmo riguardanti «un sepolcro […] conforme al disegno fatto da detto Michelangelo, […] quale serve anche per suo figliolo don Ferdinando di Sangro, nella sua cappella della Pietà de Sangro, al quale sepolcro haverà da fare tre statue di marmo, l’una delle quali ha da essere di palmi sette e mezzo in piede, l’altra di sette et la terza di sei e tre quarti» (ivi, pp. 110-111, doc. 320).
Ferdinando di Sangro, morto adolescente il 23 settembre del 1609 «lasciando ai suoi genitori trafitto il cuore d’eterna et insanabil piaga», come racconta nel 1615 Filiberto Campanile in L’historia dell’illustrissima famiglia Di Sangro (1615, p. 59), fu, secondo Raffaele Colapietra (1986, p. 64), «uno dei grandi protagonisti di S. Maria della Pietà ed anzi il primo anello di una catena della caducità umana», poiché «sepolto per primo alla Pietà», inaugurandone «la funebre destinazione». Una lettura non proprio esatta, e tuttavia consonante, forse, con quella che guidò alcune scelte del principe Raimondo: interpretazione probabilmente generata dal fatto che il monumento al primo principe di Sansevero, Giovan Francesco di Sangro, deceduto nel 1604 e quasi certamente sepolto in cappella, era in corso di realizzazione tra 1614 e 1615 (cfr. la scheda 11).
Entro il 1615 il monumento, almeno nelle sue parti architettoniche, doveva essere già installato, poiché Campanile (1615, p. 59) ha modo di riportare l’epitaffio dedicato a Ferdinando, con data 1609, «sopra il suo tumolo». Oltre all’iscrizione «nel sepolcro», l’Engenio Caracciolo (1623, pp. 263-264) ne trascrive, non senza qualche licenza, un’altra «nella sepoltura» («HIC FERNANDE IACES CRUDELIA FATA PARENTI / QUAM MAGE GRATA TUO MARMORA NATE FORENT / SI ME EADEM QUAE TE ANTE DIEM TULIT HORA TULISSET / UNAQUE SI CINERES CONDERET URNA DUOS»).
È plausibile dunque che, una volta installate le tre statue, questo secondo e stringato epitaffio venisse inciso su una lastra terragna per la sepoltura che avrebbe accolto i resti mortali di Ferdinando allorquando sia l’epigrafe datata 1609 che le spoglie del giovinetto sarebbero state fatalmente ‘scalzate’ da quelle del genitore, il principe Paolo, deceduto poi nel 1626 (cfr. la scheda 19). Entrambe le iscrizioni appaiono oggi, e così risultano registrate nell’Inventario del 1771 (cc. 86v-87r; cfr. Attanasio 2011, p. 138) e l’anno dopo da Sarnelli (1772, pp. 127-128), come un unico – senz’altro non unitario – cenotafio parietale, di fianco alla «epigrafe celebrativa di Raimondo» di Sangro, che volle forse in questa forma avvicinarle «a sé stesso ed istituire col fatale giovanetto una sorta di particolarissimo legame spirituale» (Colapietra 1986, p. 77, nota 15).
La statua, che nelle sue fattezze può darsi riproduca, idealizzandole, quelle di Ferdinando (sulla Virtù femminile che la affiancava: cfr. la scheda 3), fu quindi realizzata da Naccherino a inizio Seicento e parzialmente rielaborata nel secolo successivo, innestando su una sezione dell’avambraccio destro un nuovo arto – non perfettamente proporzionato – scolpito in un marmo di differenti grana ed estrazione, comprendente il bracciale-giogo con catena (perduta nell’Ottocento) e soprattutto culminante con la mano che ostenta un cuore in fiamme. Che si debba ad Antonio Corradini (1688-1752) o più probabilmente a Queirolo (essendo l’epigrafe datata 1755; cfr. Attanasio 2011, p. 47), la trasposizione, in apparenza così elementare, fu senza dubbio accuratamente meditata e forse predisposta già da Corradini in forma di modello o disegno. L’Iconologia di Cesare Ripa, che nella concezione dei mausolei allegorici della Cappella fu «la fonte principale delle idee di Sansevero», per giunta finanziatore di un’importante riedizione dell’opera a cura dell’abate Cesare Orlandi (Forgione 2022, pp. 47-48), offrì senz’altro ampio supporto al varo della nuova veste iconografica, essendo la figura del «Desiderio verso Iddio» caratterizzata da un cuore fiammeggiante, mentre il giogo poteva rimandare agli attributi connessi col «Matrimonio» (Ripa 1764-1767, II, 1766, pp. 183-184; IV, 1767, pp. 80-81): figure entrambe connotate da sembianze giovanili.
È suggestivo immaginare fosse risultato determinante, in questa trasmutazione di forme e significati (e in una chiave in qualche modo ancora una volta eminentemente ‘barocca’), Il trionfo del dolore di Arminio Fulgenzio Monforte, descrizione delle solenni esequie celebrate nella chiesa del Carmine a Torremaggiore nel 1674, a un anno dalla scomparsa, proprio in onore di Giovanna di Sangro, consorte di Giovan Francesco di Sangro, quinto principe di Sansevero. E ciò non tanto perché la dipartita di «Dama di tal qualità, che come allacciò tutte le pupille alla maraviglia, coi suoi costumi, così sciolse tutte le lingue agli applausi con i suoi meriti», lasciò «il Prencipe suo sposo […] tanto immerso nel duolo, che […] egli spirava fiamme ne’ sospiri»; quanto per gli apparati effimeri issati sulla facciata della chiesa pugliese, nei quali «si vedeva alla parte destra un colosso dipinto, il quale rappresentava l’Amor coniugale» che «sosteneva una corona sulle tempie […], giovane nell’aspetto», e «teneva con una delle mani un giogo, tutto di piume composto, e con l’altra un cuor con due fiamme; dichiarandosi con giogo sì leggiero la soavità di quel peso Iugum suave, che serve più di ornamento, che di gravame; e con le due fiamme nate da un solo cuore, il vicendevole affetto che tra ’i sposi consuetasi» (Arminio Monforte 1674, pp. 5-6).
La memoria di Ferdinando di Sangro sopravvive, dunque, all’avverso destino terreno toccato in sorte al giovane «verso Iddio […] religioso, e divoto, verso i parenti riverente, et obedientissimo, e verso il prossimo sì pietoso, che spesse fiate si vidde rimanere spogliato per haver dato i suoi panni a’ poveri ignudi» (Campanile 1615, p. 59), continuando a rappresentare, nelle marmoree sembianze dell’Amor divino, la «congiunzione delle cose umane con le divine», simboleggiata nell’Iconologia curata da Orlandi da un «Uomo inginocchioni cogli occhi rivolti al Cielo, e che umilmente tenga con ambo le mani una catena d’oro pendente dal Cielo, e da una stella»: dunque «un congiungimento delle cose umane con le divine, ed un certo vincolo comune, col quale Iddio quando gli piace ci tira a sé, e leva le menti nostre al Cielo» (Ripa 1766, p. 29). La concatenazione interna tra i singoli episodi della monumentale genealogia immaginata da Raimondo di Sangro – si consideri, ad esempio, la Soavità del giogo coniugale (cfr. la scheda 8) – fa dell’intero organismo una sorta di ipertesto ante litteram.
Bibliografia essenziale sull’opera
Campanile Filiberto, L’historia dell’illustrissima famiglia Di Sangro, Napoli, nella stamperia di Tarquinio Longo, 1615, pp. 59-60.
d’Engenio Caracciolo Cesare, Napoli sacra…, Napoli, Ottavio Beltrano, 1623, pp. 263-264.
Inventario de’ beni rimasti nell’eredità del fu eccellentissimo don Raimondo di Sangro principe di Sansevero, Napoli, notaio Francesco de Maggio, 1771, copia del documento disponibile presso l’Archivio Storico del Pio Monte della Misericordia di Napoli, fondo d’Aquino di Caramanico, segnatura provvisoria A.162, cc. 86v-87r, 99r-101r.
Sarnelli Pompeo, Nuova guida de’ forestieri…, Napoli, Saverio Rossi, 1772, pp. 126-128.
Cicognara Leopoldo, Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia sino al secolo XIX…, III, Venezia 1818, p. 96.
Celano Carlo, Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli… Con aggiunzioni de’ più notabili miglioramenti posteriori fino al presente, estratti dalla storia de’ monumenti e dalle memorie di eruditi scrittori napolitani, per cura del cavalier Giovanni Battista Chiarini, III, Napoli, Agostino de Pascale, 1858, p. 453.
Colonna di Stigliano Fabio, La cappella Sansevero e D. Raimondo di Sangro, in «Napoli nobilissima», IV, 1895, pp. 33-34, 118.
Picone Marina, La Cappella Sansevero, Napoli 1959, pp. 107-108.
Nappi Eduardo, La famiglia, il palazzo e la cappella dei principi di Sansevero. Dai documenti dell’Archivio Storico del Banco di Napoli, in «Revue Internationale d’Histoire de la Banque», 1975, n. 11, pp. 122-125, docc. 29-33, 49, 51.
Colapietra Raffaele, Raimondo Di Sangro e il Templum sepulcrale della cappella Sansevero (I), in «Napoli nobilissima», s. III, 1986, pp. 62-75.
de Sangro Oderisio, Raimondo de Sangro e la Cappella Sansevero, Roma 1991, pp. 215-216, n. 24.
Cioffi Rosanna, La Cappella Sansevero. Arte barocca e ideologia massonica, prima edizione: Salerno 1987; edizione citata: Salerno 1994, pp. 44-45 e fig. 38.
Kuhlemann Michael, Michelangelo Naccherino: Skulptur zwischen Florenz und Neapel um 1600, Munich 1999, pp. 224-225, 298-299 e fig. 227.
Nappi Eduardo, Dai numeri la verità. Nuovi documenti sulla famiglia, i palazzi e la Cappella dei Sansevero, Napoli 2010, pp. 110-112, docc. 318-324.
Attanasio Sergio, In casa del Principe di Sansevero. Architettura, invenzioni, inventari, Napoli 2011, pp. 47, 78, 138, 142-143.
D’Agostino Paola, The Second Prince of Sansevero’s Tomb: Addenda to a Seventeenth-Century Neapolitan Drawing in the Cooper-Hewitt, National Design Museum, New York, in «West 86th: A Journal of Decorative Arts, Design History, and Material Culture», XX, 2013, 2, pp. 226-232.
Saggiomo Mariano, Le chiese gentilizie napoletane di Età Moderna: per la ricostruzione storica di un fenomeno dimenticato, tesi di dottorato in Scienze storiche, archeologiche e storico-artistiche, Università degli Studi di Napoli Federico II, XXXIV ciclo, tutors proff. Francesco Caglioti e Bianca de Divitiis, a.a. 2021-2022, pp. 535-551.
Bibliografia di confronto
Arminio Monforte Fulgenzio, Il trionfo del dolore. Funerali per la illustrissima ed eccellentissima signora… donna Giovanna di Sangro dei Marchesi di San Lucido, prencipessa di San Severo, celebrati in Torremaggiore nella chiesa di Santa Maria del Carmine… l’anno 1674, Napoli, per Girolamo Fasulo, 1674, pp. 3-6.
Ripa Cesare, Iconologia del cavaliere Cesare Ripa perugino, notabilmente accresciuta d’immagini, di annotazioni e di fatti dall’abate Cesare Orlandi, patrizio di Città della Pieve accademico augusto. A Sua Eccellenza don Raimondo di Sangro…, I-V, Perugia, Piergiovanni Costantini, 1764-1767, II, 1766, pp. 29, 183-184; e IV, 1767, pp. 80-81.
Attanasio Sergio, In casa del Principe di Sansevero. Architettura, invenzioni, inventari, Napoli 2011, p. 83.
Forgione Gianluca, I simulacri delle cose. La Cappella Sansevero e il barocco romano, Torino 2022, pp. 47-48.