Monumento funerario di Paolo di Sangro, quarto principe di Sansevero, Giulio Mencaglia (scultore); Berardino Landini (marmoraio)

Cat. 13. Monumento funerario di Paolo di Sangro, quarto principe di Sansevero

Artista Giulio Mencaglia (scultore); Berardino Landini (marmoraio)
Titolo dell’opera Monumento funerario di Paolo di Sangro, quarto principe di Sansevero
Tecnica rilievo
Materia marmo
Datazione 1642
Dimensioni 570 (a) x 300 (l) x 88 (p) cm
Collocazione Cappella Sansevero, navata

Autore della scheda: Luigi Coiro

La prima menzione indiretta dell’opera si deve a Carlo de Lellis, che nel 1654 (pp. 140-142) ne trascrisse per intero l’epitaffio. Tuttavia, la visita pastorale effettuata da Ascanio Filomarino nel 1649 descrive la Cappella «cum quatuor ex marmore memoriis eiusdem familie [sic] defunctorum cum inscriptionibus», e rimanda a quella effettuata nel 1634 da Francesco Boncompagni (entrambe rintracciate nell’Archivio Storico Diocesano di Napoli da Mariano Saggiomo: cfr. Saggiomo 2021-2022, in particolare p. 506), che però registra la presenza di sole tre «memorie»: a destra dell’altare maggiore quelle di Alessandro e di Giovan Francesco, a sinistra quella di Paolo (cfr. le schede 4, 11, 19). A fianco di quest’ultimo, nel frattempo, doveva quindi essersi aggiunto proprio il monumento del quarto principe di Sansevero, recante la data 1642 al termine della lunga epigrafe incisa sulla lapide.

Diversamente da quanto è stato sostenuto anche in tempi recenti (Ricco 2023, p. 77), con ogni evidenza la tomba non fu commissionata per la prima cappella a sinistra della navata, sua attuale ubicazione, dove sarebbe stata spostata solo nel corso dell’ammodernamento settecentesco progettato dal principe Raimondo (Attanasio 2011, pp. 46, 145-147). Originariamente la scultura andò dunque a completare la simmetria dei quattro monumenti funerari ai lati dell’altare e, «pur dedicata formalmente dal figlio Giovan Francesco, è in realtà un risultato, tanto artisticamente pregevole quanto politicamente sintomatico, di Giambattista e di Placido», tutori dell’infante, «i quali intendono chiudere una volta per sempre il discorso ‘europeo’ per mantenere aperto, ed anzi spalancando, quello regionale pugliese in prospettiva intransigente di ‘rifeudalizzazione’» (Colapietra 1986, p. 67; sul concetto storiografico di «rifeudalizzazione» cfr. Villari 1963).

Prima di morire appena ventisettenne nel 1636, Paolo – «degli agi della paterna Reggia così nemico che da giovanetto applicossi al mestiero delle armi, dicendo che non poteva mai chiamarsi buon prencipe chi nella scuola della milizia non apprendeva il modo di regnare col vincere» (Arminio Monforte 1674, p. 161) – aveva fatto in tempo a incarnare «l’istinto marziale de’ Sangri» partecipando nella sua pur breve esistenza, durante la Guerra dei Trent’anni, ai meriti guerreschi degli avi. Questi ultimi vengono elogiati «nel ventesimo terzo medaglione» dell’apparato per le solenni esequie celebrate a Torremaggiore nel 1674 in onore di Giovanna di Sangro (ivi, pp. 161-168; cfr. le schede 6 e 18), ma soprattutto nel Genio bellicoso di Napoli di Raffaele Filamondo (1694, pp. 117-130, 161 [ma 261]), che ricorda il quarto principe di Sansevero tra i condottieri che, col grado di colonnello, «han militato per la fede, per lo re, per la patria» nella vittoriosa battaglia di Nördlingen del 1634, distinguendosi al punto da essere insignito dell’onorificenza del Toson d’oro, il cui pendente col vello sbuca al di sotto della sciarpa nella statua a lui dedicata nel tempio disangriano.

Nella «ricca esemplificazione del costume europeo del XVII secolo» costituita dalla Cappella Sansevero, Adelaide Cirillo Mastrocinque (1969, p. 142) si è soffermata specialmente su «questa magnifica evocazione di una così baldanzosa eleganza, irridente e malinconica insieme»; e, pur non volendo «accusare Paolo di Sangro di essere stato uno ‘scatolone di cerimonia’», notava come «le sue vesti e il suo stesso atteggiamento ce lo propongono come un uomo ‘à la page’, per un verso tutto rivolto alla moda di ispirazione franco-olandese, e per l’altro campione di un certo esibizionismo di tipo militaresco e ‘smargiasso’, che è proprio degli spagnoli».

Tuttavia la minuziosa resa dei singoli elementi – «clamorosa» quella dell’«ampio collare orlato di profondi festoni a punto ad ago, il collet vidé o col rabat venuto a scalzare le opprimenti gourgueras e le austere golillas di Spagna» –, al di là del valore squisitamente ornamentale, ha la fondamentale funzione di definire ed evidenziare gli incarichi ufficiali ricoperti dall’effigiato, e di «eternare la ‘memoria’» di tutti i suoi attributi (ibidem), facendo del monumento, come recita l’epitaffio, «VITAE THALAMUM, MORTIS TUMULUM» (Lattuada 1984, p. 213).

In quello che considerava «uno dei più suggestivi esemplari tra le sculture in marmo che hanno reso famoso questo tempietto», Vincenzo Pacelli (1986, p. 231) leggeva in particolare il «bellissimo elmo» come «pezzo pregevole di natura morta». Ma proprio nei particolari del costume, secondo Marina Picone (1959, pp. 73-74), «il gioco di chiari e di scuri si potenzia […] in una visione tendenzialmente più esteriorizzata e sensibile, meno naturalistica, di quanto ci si sarebbe dovuto attendere in un’opera del Fanzaga», cui la scultura è generalmente riferita ab antiquo – e nel secolo scorso, ad esempio, da Fogaccia (1945, pp. 143-144), Bologna e Doria (in Mostra del ritratto 1954, p. 27) e Mormone (1970, p. 183) – in ossequio a «quel fenomeno di panfanzaghismo che sembra permeare gran parte della critica relativa alla scultura» napoletana del Seicento. A una assai brillante intuizione della studiosa si deve, peraltro, l’attribuzione dell’opera allo scultore carrarese Giulio Mencaglia (Picone 1959, p. 73), in seguito confermata pressoché incontrovertibilmente da un documento reso noto da Eduardo Nappi (1975, pp. 5, 29-30, doc. 74; Idem 2010, p. 115, doc. 353): il 25 ottobre del 1642 Berardino Landini – in quel giro d’anni assiduo sodale di Mencaglia – incassava 69 ducati «per prezzo d’un pezzo di marmo […] dal quale dovrà farsi la statua del Principe di San Seviero».

Alla magnificenza dell’insieme concorrono ampiamente la ricca mistione cromatica dei marmi, in sintonia con «la cultura fantastica di Dionisio Lazzari» (Causa Picone 1992, p. 588), gli ipertrofici mascheroni in marmo bianco – quello di sinistra scheggiato e grezzamente risarcito nell’estremità inferiore – che guarniscono e quasi presidiano il piedistallo intarsiato con due eleganti trofei su fondo nero, e la complessa trabeazione con la parete di fondo scandita da due panoplie con altri sei trofei a bassorilievo, tre per lato: un’impaginazione che, pur rientrando in un’aulica e consolidata tradizione (cfr. Steinke 2022; Ricco 2023, pp. 77-81, 121-122), è davvero singolare, anche per il suo «accentuato sviluppo orizzontale» (Lattuada 1984, p. 213), e contribuisce a fare di questo deposito il «più pittoricizzato e fantasioso» tra quelli seicenteschi della Cappella (Causa Picone 1992, p. 588). In considerazione della qualità delle decorazioni, Mencaglia, più che per i «paramenti intarsiati e quella sapienza di accostamenti dei marmi mischi», risultò probabilmente decisivo per i finimenti plastici coadiuvando Landini, il quale, secondo Causa Picone (ibidem), fu autore finanche dei due leoncini che reggono la cassa sepolcrale, la cui non felicissima resa si deve forse alla difficoltà nel misurarsi col marmo rosso (non si può però escludere si tratti di pezzi di spoglio o di recupero).

La stretta relazione con la pressoché contemporanea Cappella Firrao nella basilica napoletana di San Paolo Maggiore (Iorio 2012, p. 348) si deve certo al coinvolgimento degli stessi artefici – Mencaglia, oltre alla Madonna col Bambino, realizzò il ritratto di Antonino Firrao genuflesso (ivi, pp. 299-300) –, e si estende a un’altra ‘magnifica’ impresa patrocinata in quegli stessi anni dal principe di Sant’Agata Cesare Firrao, ovvero l’ammodernamento della facciata del palazzo di famiglia su Via Costantinopoli – oltre ai sette busti-ritratto si considerino le sei lesene in marmo bianco cariche di trofei a bassorilievo (cfr. Steinke 2022, pp. 22-23) –, che vide ancora una volta all’opera l’accoppiata Landini-Mencaglia.

Mentre da un punto di vista tecnico e stilistico il Paolo di Sangro si raccorda perfettamente ai ritratti Firrao (compresi i busti, perduti, già nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli a Cosenza; cfr. Ricco 2023, pp. 124-125, n. 13, pp. 131-132, n. 21), il modulo compositivo – che tra i vari precedenti può annoverare anche il Giovan Francesco di Sangro in Cappella (cfr. la scheda 11) – si lega alla coeva statua-ritratto di Carlo Maria Caracciolo, scolpita entro il 1643 dal lombardo Ercole Ferrata, che però «possiede un tipico elemento berniniano nella capacità di apparire in movimento»: effetto esaltato anche dal «rapporto probabilmente ‘casuale’ con l’ambiente in cui è ora», la Cappella Caracciolo di Vico in San Giovanni a Carbonara, essendo la statua in origine quasi certamente destinata alla nicchia di un monumento chiesastico a parete in quel di Torrecuso; laddove il Paolo di Sangro sarebbe «invece rinchiuso in un contesto architettonico-decorativo» che crea un «effetto di fagocitazione della scultura» (Lattuada 1984, p. 213).

Ad amplificare questa percezione contribuisce, tra gli altri dettagli, un lieve scarto nella posizione del guerriero, che ancora in pieno Ottocento, come si vede in una litografia di Franz Wenzel curiosamente intitolata «Il Decoro» – virtù di norma associata al Monumento funerario di Isabella della Tolfa e di Laudomia Milano (cfr. la scheda 14) –, pare fosse orientato, per quanto di poco, più verso la sua sinistra. L’ipotesi è suffragata anche dalla «figura di uno de’ preziosi sepolcri de’ mede[si]mi [avi]», incisione pubblicata da Pompeo Sarnelli (1685, tra le pp. 196-197; cfr. Saggiomo 2021-2022, p. 516, nota 23; Ricco 2023, p. 78) con dedica di Antonio Bulifon a Paolo di Sangro quarto principe di Sansevero, la quale, per quanto compendiosa, mostra – come pure quella di Wenzel – il bastone del comando intero, serrato dalla mano destra del principe, mentre attualmente la porzione posteriore dell’attributo iconografico è assente e il pugno aderisce alla mezza parasta dell’edicola. Nella stampa sono inoltre ben visibili due coppie di colonne catalogate ancora nella meticolosa descrizione del monumento stilata per l’Inventario del 1771 (cc. 107v-114r; cfr. Attanasio 2011, pp. 145-147) – una delle più estese tra quelle dedicate ai monumenti della Cappella –, che appunto registra «quattro colonne, due di negro e due di brecciolina […]. Sopra detto pezzo di piedistallo vi è la base, e vi è un regoletto di bardiglio colla base corintia, e una colonna di sopra già descritta, ch’è di brecciolina in masso col suo capitello corintio. Accanto a dette colonne vi sono altre due colonne di negro, di sopra notate, in masso con base di marmo bianco e con capitello ionico».

Le due coppie di colonne (nell’edizione del 1772 la guida di Sarnelli, p. 126, forse per errore, ne conta solo una) non sono più presenti, e non è improbabile fossero state danneggiate – stessa sorte può essere toccata anche alle colonne che ornavano il monumento di Giovan Francesco di Sangro (cfr. la scheda 11) – in séguito al crollo di parte della controfacciata della chiesa nel 1889 (cfr. Colonna di Stigliano 1895, pp. 33-34). Pertanto, la lieve rotazione verso sinistra della statua rispetto all’assetto sei e settecentesco potrebbe dipendere proprio dagli adattamenti resi necessari dall’eliminazione delle colonne, tant’è che la possente figura sembra ambientarsi a fatica nella nicchia, ridotta in termini di profondità più che di ampiezza, sebbene non sia da escludere l’ipotesi che la scultura sia stata incassata al possibile in una non semplice operazione di arretramento delle porzioni più prominenti del monumento.

Sempre secondo l’Inventario (1771, c. 108r; cfr. Attanasio 2011, p. 145), «nel mezzo di detto deposito» era «una lapida di negro con lettere scolpite, e colorite gialle», probabilmente anch’essa andata distrutta nel crollo del 1889 e rimpiazzata solo nel secolo scorso con una nuova lapide di marmo bianco, che riporta il testo originario dell’elogio (de Sangro 1991, p. 208), dedicato al protagonista di «una delle sculture più affascinanti del Seicento» (Nava Cellini 1982, p. 129).

Bibliografia essenziale sull’opera

de Lellis Carlo, Parte seconda, overo supplimento a “Napoli sacra” di don Cesare d’Engenio Caracciolo, Napoli, per Roberto Mollo, 1654, edizione citata: a cura di Luciana Mocciola ed Elisabetta Scirocco, Napoli-Firenze 2007, pp. 140-142, solo in rete: www.memofonte.it.

Sarnelli Pompeo, Guida de’ forestieri…, Napoli, Giuseppe Roselli, a spese di Antonio Bulifon, 1685, p. 197, tav. 197.

Sarnelli Pompeo, Guida de’ forestieri…, Napoli, Antonio Bulifon, 1688, pp. 239-240, tav. 239.

Sarnelli Pompeo, Guida de’ forestieri…, Napoli, Giuseppe Roselli, 1697, pp. 195-196, tav. 196.

Inventario de’ beni rimasti nell’eredità del fu eccellentissimo don Raimondo di Sangro principe di Sansevero, Napoli, notaio Francesco de Maggio, 1771, copia del documento disponibile presso l’Archivio Storico del Pio Monte della Misericordia di Napoli, fondo d’Aquino di Caramanico, segnatura provvisoria A.162, cc. 107v-114r.

Sarnelli Pompeo, Nuova guida de’ forestieri…, Napoli, Saverio Rossi, 1772, p. 126.

Sigismondo Giuseppe, Descrizione della città di Napoli e suoi borghi, II, [Napoli,] presso i fratelli Terres, 1788, p. 35.

Wenzel Franz, tav. XVIII raffigurante «Il Decoro» e appartenente a un gruppo di 32 litografie con le sculture della Cappella Sansevero di Napoli disegnate da autori vari e incise da Wenzel nel 1839 circa: la copia rintracciata (mancante di sei litografie) si trova presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, collocazione PALATINA Banc. 03.

Catalani Luigi, Le chiese di Napoli. Descrizione storica ed artistica, I, Napoli 1845-1853, pp. 129-130.

Galante Gennaro Aspreno, Guida sacra della città di Napoli, Napoli 1872, p. 160.

Fogaccia Piero, Cosimo Fanzago, Bergamo 1945, pp. 143-144.

Mostra del ritratto storico napoletano, catalogo della mostra a cura di Gino Doria e Ferdinando Bologna (Napoli, Palazzo Reale, ottobre – novembre 1954), Napoli 1954, in particolare p. 27.

Picone Marina, La Cappella Sansevero, Napoli 1959, pp. 73-75.

Nava Cellini Antonia, Un tracciato per l’attività ritrattistica di Giuliano Finelli, in «Paragone. Arte», XI, 1960, 131, pp. 9-30, in particolare p. 25.

Cirillo Mastrocinque Adelaide, Ritratto e costume nella scultura tombale del Seicento a Napoli, in «Napoli nobilissima», s. III, VIII, 1969, pp. 139-146, in particolare pp. 140-141, figg. 25, 27, e p. 142.

Mormone Raffaele, Sculture di Cosimo Fanzago, in «Napoli nobilissima», s. III, IX, 1970, pp. 174-185, in particolare p. 183.

Nava Cellini Antonia, Tracce per lo svolgimento di Cosimo Fanzago scultore, in «Paragone. Arte», XXII, 1971, 251, pp. 38-66, in particolare p. 65.

Nava Cellini Antonia, La scultura dal 1610 al 1656, in Storia di Napoli, V.2, Il Viceregno, Napoli 1972, pp. 783-825, in particolare pp. 808-809.

Nappi Eduardo, La famiglia, il palazzo e la cappella dei Principi di Sansevero. Dai documenti dell’Archivio Storico del Banco di Napoli, in «Revue Internationale d’Histoire de la Banque», 1975, n. 11, pp. 1-61, in particolare pp. 5, 29-30, doc. 74.

Santucci Paola, La scultura e la decorazione plastica nell’età barocca, in «La voce della Campania», VII, 1979, 20, pp. 407-422, in particolare p. 420.

Nava Cellini Antonia, La scultura del Seicento, Torino 1982, pp. 128-129.

Lattuada Riccardo, in Civiltà del Seicento a Napoli, catalogo della mostra (Napoli, sedi varie, 24 ottobre 1984 – 14 aprile 1985), II, Napoli 1984, pp. 212-213.

Colapietra Raffaele, Raimondo di Sangro e il Templum sepulcrale della Cappella Sansevero (I), in «Napoli nobilissima», s. III, XXV, 1986, pp. 62-79, in particolare p 67.

Pacelli Vincenzo, L’ideologia del potere nella ritrattistica napoletana del Seicento, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XVI, 1986, pp. 197-241, in particolare pp. 230-241, figg. 22-23.

de Sangro Oderisio, Raimondo de Sangro e la Cappella Sansevero, Roma 1991, pp. 204-208, n. 21.

Causa Picone Marina, La cappella Sansevero dal 1590 al 1652: un “point de repère” per la scultura barocca a Napoli, in Barocco napoletano, a cura di Gaetana Cantone, II, Napoli 1992, pp. 581-598, in particolare pp. 588-589, fig. 3.

Cioffi Rosanna, La Cappella Sansevero. Arte barocca e ideologia massonica, prima edizione: Salerno 1987; edizione citata: Salerno 1994, p. 194.

Nappi Eduardo, Dai numeri la verità. Nuovi documenti sulla famiglia, i palazzi e la Cappella dei Sansevero., Napoli 2010, pp. 96, 115, doc. 353.

Attanasio Sergio, In casa del Principe di Sansevero. Architettura, invenzioni, inventari, Napoli 2011, pp. 46, 145-147.

Iorio Sabrina, La cappella Firrao nella chiesa di San Paolo Maggiore di Napoli: la committenza, gli artisti e le opere, in Sant’Andrea Avellino e i teatini nella Napoli del viceregno spagnolo. Arte religione società, a cura di Domenico Antonio D’Alessandro, II, Napoli 2012, pp. 289-426, in particolare pp. 348, 355, tav. 45.

Saggiomo Mariano, Le chiese gentilizie napoletane di Età Moderna: per la ricostruzione storica di un fenomeno dimenticato, tesi di dottorato in Scienze storiche, archeologiche e storico-artistiche, Università degli Studi di Napoli Federico II, XXXIV ciclo, tutors proff. Francesco Caglioti e Bianca de Divitiis, a.a. 2021-2022, pp. 535-552, in particolare pp. 506, 516, nota 23.

Ricco Antonello, Giulio Mencaglia, uno scultore del Seicento tra Firenze, Roma e Napoli, Pisa 2023, pp. 77-81, 121-122, n. 10.

Bibliografia di confronto

Arminio Monforte Fulgenzio, Il trionfo del dolore. Funerali per la illustrissima ed eccellentissima signora… donna Giovanna di Sangro dei Marchesi di San Lucido, prencipessa di San Severo, celebrati in Torremaggiore nella chiesa di Santa Maria del Carmine… l’anno 1674, Napoli, per Girolamo Fasulo, 1674, pp. 161-168.

Filamondo Raffaele, Il Genio bellicoso di Napoli…, I, in Napoli, nella nuova stampa di Domenico Antonio Parrino e di Michele Luigi Mutii, 1694, pp. 117-130, 161 [ma 261].

Colonna di Stigliano Fabio, La cappella Sansevero e D. Raimondo di Sangro, in «Napoli nobilissima», IV, 1895, 3, pp. 33-36, in particolare pp. 33-34.

Villari Rosario, Note sulla rifeudalizzazione del Regno di Napoli alla vigilia della rivoluzione di Masaniello, in «Studi storici», IV, 1963, 4, pp. 638-668.

Coiro Luigi, Ercole Ferrata da «marmoraro» a «scultore» nella Napoli di Cosimo Fanzago, in Ercole Ferrata (1610-1686) da Pellio all’Europa, atti del convegno internazionale di studi (Como, 3-4 febbraio 2011), a cura di Andrea Spiriti e Laura Facchin, Laino 2019, pp. 36-65, in particolare p. 44.

Steinke Horst, The Façade of Palazzo Firrao: Towards a New Interpretation, in «Napoli nobilissima», s. VII, VIII, 2022, 1, pp. 19-35.

Ricco Antonello, Giulio Mencaglia, uno scultore del Seicento tra Firenze, Roma e Napoli, Pisa 2023, pp. 124-125, n. 13, pp. 131-132, n. 21.

Monumento funerario di Paolo di Sangro, quarto principe di Sansevero, Giulio Mencaglia (scultore); Berardino Landini (marmoraio)